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TUTELA DEI DATI PERSONALI

TAR Lazio: legittimo il diniego all'accesso agli atti del Garante privacy per tutelare l'anonimato del segnalante.

La ricorrente, destinataria  di  visita  ispettiva  da  parte  dell’Ufficio  del Garante per la protezione dei dati personali, di avere presentato, in data 22 maggio 2015, presentava una prima istanza per l’accesso ai documenti presupposti del procedimento avviato nei propri confronti e alle susseguenti determinazioni.

Il Garante rispondeva rappresentando la necessità di un differimento della richiesta di accesso alla documentazione afferente l’istruttoria intrapresa dall’Autorità a seguito di una segnalazione relativa all’attività intrapresa dall’Agenzia “Il filo rosso” (di cui la ricorrente è la legale rappresentante), al fine di non pregiudicare la predisposizione o attuazione di atti e provvedimenti in relazione ad attività di verifica o ispettive, nonché per la necessità di salvaguardare specifiche esigenze dell’amministrazione nella fase preparatoria di provvedimenti.

Ritenendo non giustificato il differimento della richiesta di accesso, la ricorrente ripresentava istanza chiedendo nuovamente gli atti di interesse, cui il Garante rispondeva confermando quanto già comunicato precedentemente, e precisando ulteriormente i motivi a supporto del differimento.

Il Garante procedeva poi alla archiviazione del procedimento, non essendo stati ravvisati gli estremi di
una violazione della disciplina rilevante in materia di protezione dei dati personali, nonché, del diniego definitivo alla richiesta di accesso, in quanto “tali atti non sono idonei ad incidere sulla sfera soggettiva del richiedente e non è configurabile, in capo al medesimo, alcun interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata agli atti procedimentali dei quali
si chiede l'ostensione (art. 2, comma 2, del Regolamento n. 112006 "Accesso ai documenti amministrativi
presso l'Ufficio del Garante"), ciò anche in considerazione della circostanza che il procedimento si è concluso senza alcun pregiudizio.
 
Ritenendo l’illegittimità del diniego di accesso ai documenti, la ricorrente impugnava il provvedimento da ultimo richiamato ricorso al TAR, sostenendo di avere  titolo  a   conoscere  la  documentazione  richiesta  (esposto-denuncia  e documenti allegati e ogni altro documento presente nel fascicolo) in quanto è stata oggetto di una procedura di accertamento, ivi compresa l’ispezione investigativa domiciliare,   che   avrebbe   “sortito   un   notevole   nocumento   alla   ricorrente, consistente in gravi conseguenze sia sul piano lavorativo che sul piano psicofisico. Va da sé che la stessa sia intenzionata a chiedere al responsabile/i di tali conseguenze dannose l'integrale ristoro nelle sedi giurisdizionali appropriate.”.
La ricorrente rileva, inoltre, che il c.d. “esposto denunzia” potrebbe contenere “ipotesi di reato” a suo carico, inerenti all’illegale trattamento dei dati sensibili altrui, per cui – in quanto l’esposto in argomento “avrebbe valore di denunzia” - potrebbe  ipotizzarsi  un  reato  di  calunnia  ai  suoi  danni,  da  cui  l’interesse  a conoscere il documento, onde adire il competente Tribunale per ottenere giustizia. Deduce, al riguardo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 22, legge n. 241 del 1990; dell’art. 24, legge n. 241/1990 e dell’art. 8, comma 5, lett. D) del d.P.R. n.  352/1992; violazione del Regolamento n. 1/2006, in data 26 luglio 2006, relativo all’accesso ai documenti amministrativi presso l’Ufficio del Garante.

Il ricorso è infondato.
 
E’ principio consolidato che il giudizio in materia di accesso ai documenti di cui all’art. 25, legge 7 agosto 1990, n. 241, anche se si atteggia come impugnatorio - dovendo essere presentato il ricorso nel termine perentorio di 30 giorni ed essendo rivolto contro l’atto di diniego o il silenzio diniego formatosi sulla relativa istanza - è, in sostanza, rivolto ad accertare la sussistenza o meno del titolo all’accesso nella  specifica situazione alla  luce dei  parametri  normativi,  indipendentemente dalla    maggiore  o  minore  correttezza  o  completezza  delle  ragioni  addotte  dall’Amministrazione per giustificare il diniego, tanto è vero che, anche nel caso di    impugnativa del silenzio diniego, la parte resistente potrebbe anche dedurre in giudizio le ragioni che precludono all’interessato di avere copia o di visionare i relativi documenti richiesti.  Come sopra esposto, alle richieste di accesso presentate dalla parte ricorrente, l’Autorità resistente ha opposto, dapprima la sussistenza di ragioni per il differimento, e poi, con la nota impugnata, la carenza di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti di cui è stato chiesto l'accesso.  

Ed invero, è indubitabile che le norme introdotte dalla legge 241 nel 1990, come    successivamente integrate e modificate, consentono l’esercizio del c. d. «diritto di    accesso», ovvero il diritto di prendere visione e di estrarre copia di documenti  amministrativi, a tutti coloro che l’art. 22, legge in esame, definisce «interessati»,    ovvero a tutti i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è chiesto l'accesso.  Il successivo art. 25, secondo comma, dispone, ancora, che la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata, e deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento e che lo detiene stabilmente.  

Con norma speculare ai principi dianzi riportati, l’art. 2, d.P.R. 12.4.2006, n. 184, recante la disciplina applicativa in materia di accesso, prevede che “Il diritto di accesso ai documenti amministrativi è esercitabile nei confronti di tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario, da chiunque abbia un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l'accesso. Il diritto di accesso si esercita con riferimento ai documenti amministrativi materialmente esistenti al momento della richiesta e detenuti alla stessa data da una pubblica amministrazione, di cui all'articolo 22, comma 1, lettera e), della legge, nei confronti dell'autorità competente a formare l'atto conclusivo o a detenerlo stabilmente.

La pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso.”  Il delineato quadro normativo fa ritenere al Collegio che l’interesse all’accesso deve evidenziare la sua strumentalità rispetto alla sussistenza di un’ulteriore situazione soggettiva cui l’ordinamento riconosce tutela (“per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti”, giusta l’art. 22, legge n. 241 del 1990, sopra richiamato) che deve essere necessariamente, a sua volta, d’interesse legittimo o di diritto soggettivo,  onde  evitare  che,  attraverso  il  ricorso  a  tale  mezzo  di  tutela  si  determini, di fatto, l’accesso indifferenziato alla attività amministrativa, mentre    invece la struttura normativa come sopra indicata porta ad escludere che il diritto    di  accesso  comporti  un  indiscriminato  potere  esplorativo  né,  tantomeno,  un    generalizzato potere di vigilanza sull’operato delle Amministrazioni.    

Tanto precisato, e venendo all’oggetto della richiesta ostensiva presentata dalla ricorrente, emerge con limpida evidenza che l’interesse alla stessa sotteso, ancorché diretto, concreto e attuale, va circoscritto, in sostanza, alla conoscenza del nominativo dell’autore della segnalazione che ha dato avvio al procedimento ispettivo eseguito a suo carico, onde rivalersi dei danni asseritamente patiti in conseguenza di ciò, atteso che invece, sul versante prettamente amministrativo, il procedimento si è concluso favorevolmente con una archiviazione, non essendo emerse  violazioni  della  disciplina  rilevante  in  materia  di  protezione  dei  dati personali suscettibili di costituire oggetto di specifici interventi da parte dell’Autorità.  

Così circoscritto l’interesse all’accesso alla conoscenza del dato di cui sopra si è detto (nominativo dell’autore della segnalazione ricevuta dall’Ufficio del garante) la questione giuridica da porsi è quella della prevalenza comunque del diritto alla ostensione rispetto alla tutela, non tanto della riservatezza di un terzo che, peraltro, nemmeno è parte del presente giudizio, ma, più in radice, delle forme di tutela che il legislatore ha posto a presidio del diritto alla protezione dei dati personali, attraverso la garanzia dell’anonimato di chi, esercitando un diritto espressamente previsto dall’ordinamento, si pone quale stimolo dei poteri di accertamento e di controllo, anche a mezzo di ispezioni, propri del Garante per la protezione dei dati personali.

 E’ il caso, invero, dei procedimenti avviati sulla base di segnalazioni, ai sensi dell’art. 141, lett. b), che il d.lgs. n. 196/2003 annovera tra le forme di tutela del  diritto alla protezione dei dati personali, cui il Collegio ritiene possano essere estesi    i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa in materia affine a quella    oggetto della presente controversia.    Esiste,  infatti,  un  orientamento  assunto  dal  Consiglio  di  Stato  (ancorché  in occasione di controversie su una differente tipologia di procedimento, ma i cui tratti sono assimilabili per i fini di interesse; cfr. Sez. VI, n. 5779/2014)), secondo cui l’esigenza di tutela della riservatezza di chi rende dichiarazioni in sede ispettiva assume una peculiare rilevanza, onde scongiurare eventuali ritorsioni o indebite pressioni da parte del soggetto nei cui confronti sono state rese le dichiarazioni, ma anche, (e, ritiene il Collegio, soprattutto) per preservare, su di un piano più ampio, il generale interesse ad un compiuto controllo delle attività oggetto di ispezione (nella specie, si trattava dell’attività ispettiva sulla regolarità dei rapporti di lavoro).

Se, infatti, il bilanciamento tra diritto di accesso per la difesa e cura dei propri interessi, da un lato, e diritto di riservatezza del terzo, dall’altro, è stato risolto dal legislatore con la prevalenza alla tutela del diritto di accesso, quando questo sia strumentale alla cura o difesa di propri interessi giuridici (art. 24, co. 7, legge n.  241/21990), non può essere trascurato che, nel caso di specie esiste, sullo sfondo,    un  preminente  interesse  dell’ordinamento  giuridico,  quale  la  tutela  dei  dati personali come declinata nei diversi mezzi pure previsti dal legislatore, che è altrettanto meritevole di essere preservato nella sua integrità ed effettività.  Come si evince dall’incipit della nota oggetto di contestazione, il Garante ha precisato che l’attività istruttoria in merito al trattamento dei dati personali effettuato dalla ricorrente in qualità di titolare dell’Agenzia “Il filo rosso”, era stata avviata d’ufficio e sulla base di una segnalazione.  Si  tratta,  dunque,  di  un  caso  in cui  l’attività  amministrativa  è  stata  sollecitata facendo legittimo ricorso ad uno strumento (la segnalazione) che costituisce una precisa forma di tutela, a prescindere dal fatto che poi il procedimento si sia  concluso, per la ricorrente, con una archiviazione.    Ed invero, il potere di controllo, che il Garante può esercitare anche in via del    tutto autonoma, ottiene la più completa ed esauriente esplicazione anche con l’esercizio dei mezzi di tutela posti dall’art. 141, d.lgs. 196/2001, tra cui, le segnalazioni che possono essere presentate in mancanza di elementi tali da consentire la presentazione di un ricorso o di un reclamo circostanziato.  

Pertanto, ammettere che la conoscenza del nominativo del segnalatore costituisca un diritto indefettibile del soggetto che tratta dati personali, che, in ragione di ciò, si ricorda, è sottoposto al permanente potere di controllo del Garante circa la regolarità e conformità a legge di tale trattamento si risolverebbe, di fatto, in un depotenziamento di questo utile strumento posto a tutela di un bene giuridico considerato di particolare rilievo, quali sono, appunto, i “dati personali”.  Il ricorso, in conclusione, deve essere respinto; sussistono, tuttavia, motivi per disporre la compensazione delle spese del giudizio tra le parti costituite, tenuto anche conto della particolarità della questione introdotta. 
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