REATI INFORMATICI
Corte Suprema di Cassazione: diffamazione on line, l’indirizzo IP collegato all’utenza telefonica costituisce prova sufficiente per ricondurre il reato al titolare del contratto.
L’indirizzo IP è una sorta di “targa” della connessione a internet. Chi si connette al web lo fa sempre da un proprio indirizzo che, poi, lo identifica nel corso della navigazione. Le autorità sono in grado di intercettare questo codice anche a distanza di diverso tempo e a risalire, così, all’identità del colpevole.
Chi intende scoprire l’autore di un post o un commento anonimo, non può farlo da sé, ma deve sempre prima sporgere querela presso le autorità competenti (i Carabinieri, la procura della Repubblica o la polizia postale). Il magistrato autorizzerà le indagini e si potrà procedere, successivamente, all’individuazione del colpevole, sempre sperando che, nel frattempo, non sia intervenuta la prescrizione.
Certo, il responsabile potrebbe sempre assumere, a propria difesa, che l’illecito sia stato compiuto da un terzo malintenzionato che, effettuando un “furto d’identità”, dopo essersi appostato nelle adiacenze dell’abitazione del titolare della linea wireless, ne abbia sfruttato la connessione, navigando con la sua “targa”. Ma non è detto che una scusa del genere faccia breccia nel magistrato, come nel caso di specie; e questo perché c’era il movente del delitto – un’antica rivalità tra le parti – tale da consentire al giudice di ritenere più che sufficiente, per il giudizio di colpevolezza, la semplice prova dell’indirizzo IP.
Così è stato deciso dalla sezione quinta della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8275 del 29 febbraio 2016.
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